Da De Chirico a Vedova, Novecento privato
Galleria Bottegantica, Milano
“Novecento segreto” è il titolo, in verità appropriato e intrigante, di questa mostra: un titolo che sembra voler celare e svelare allo stesso tempo; o ancor meglio, sembra voglia rendere visibile ciò che era nascosto - per ragioni diverse, legate alla gelosia del collezionismo, che occulta spesso ciò che ama.
Ed è esattamente questo il senso della mostra, che in apparenza è eclettica e si svolge in un periodo di quasi un secolo di arte italiana (più o meno tutto il Novecento, secolo “breve” che in effetti più lungo e complesso e affascinante e drammatico non avrebbe potuto essere), e nasce dall'occasione piuttosto eccezionale di avere i nuclei di due collezioni pressoché intere a disposizione.
Ecco dunque perché “Novecento segreto”: quei quadri del secolo trascorso emergono dal chiuso di sale private, frutto di una lunga raccolta da parte dei proprietari, che in quelle opere hanno segretamente riposto i loro gusti, le loro passioni, le idiosincrasie e gli eccessi, i momenti di ricerca e di felicità.
Ora che escono da quelle stanze, sembra che il filo che li aveva uniti permanga ancora, mostrandoci non solo dei capolavori, talvolta notissimi e talaltra sconosciuti o poco conosciuti, dei singoli artisti, ma anche le ragioni che un tempo li avevano accomunati: misteriose e insondabili, come delle correspondances baudelairiane o mallarmeiane, ma che fanno altrettanto parte della loro storia e della loro vita.
Se i due nuclei rappresentano la parte maggiore della mostra, tuttavia il Gallerista, come il regista di un film, vi ha mescolato alcuni frammenti di altre vite, di altre storie, punteggiando il discorso con incisi (altre opere, ovviamente) che talvolta spiegano anche meglio il senso di quei due percorsi paralleli e differenti.
Si mescolano dunque opere più o meno note, ma non viene mai meno la costante della qualità, che è l’idolo più adorato nel rito pagano del collezionista.
In realtà, proprio per tale ragione, questa mia introduzione alla mostra serve a poco: le opere rappresentano se stesse al meglio, e non vogliono disporsi in un ordine dotto e filologico. Si adagiano piuttosto secondo un percorso di passioni private, e sembrano cercare oggi altre passioni con cui confrontarsi, rinnovando quel motivo per cui la stessa arte vive nella società: il collezionismo. Il collezionismo che permette agli artisti di vivere e creare, al mondo di riflettere su se stesso, alla società di esprimere al meglio la propria idea di bellezza.
Partendo da Boccioni e Balla e finendo con Vedova e Bonalumi, la scelta di queste opere lascia a volte davvero stupiti. Non solo per la qualità dei singoli pezzi, ma talvolta per la loro originalità nel percorso degli artisti, per la squisitezza di certi riferimenti, per la rarità, anche. Davvero raro è il bellissimo Paesaggio lombardo di Boccioni, una nuova aggiunta al suo scarno catalogo generale, acquistato all’epoca da un amico di origine olandese dell’artista che sarebbe diventato uno dei maggiori fotografi argentini, trasferitosi a Buenos Aires nel 1911: conoscevamo la composizione finora solo da un disegno preparatorio. Adolfo Wildt è rappresentato da uno dei suoi marmi levigatissimi, che sotto la materia impassibile fanno pulsare il dramma più vertiginoso: la base originale lo esalta come una stele antica. I Merli futuristi di Balla sono la dimostrazione che la serietà dell’astrazione può andare di pari passo con il gioco e la gioia panica della vita.
L’autoritratto di De Chirico degli anni venti, uno dei suoi più impressionanti tra i tanti che nel suo narcisismo intellettuale realizzò, ha una densità cromatica e un virtuosismo strepitosi, emozionanti. La Grande Jatte di Seurat riletta da Campigli rappresenta un intero mondo intellettuale europeo, partecipato da una larga parte degli artisti tra le due guerre, che vedevano il caposaldo della modernità (astrattiva, proporzionale, compositiva) in Seurat piuttosto che in Cézanne: così come teorizzato da Severini e dalla rivista di Le Corbusier e Ozenfant ,“Esprit Nouveau”; punti fermi, assieme alla rilettura di Piero della Francesca, della ricostruzione del mondo dopo le distruzioni avanguardistiche.
Il piccolo volto di ragazzo di Severini, bello e astratto come un ritratto del Fayum, ha ancora il prezioso sapore della sua cornice originale, identica a quelle in cui l’artista aveva racchiuso tutti i suoi quadri alla Biennale del 1936. Sironi appare in mostra – oltre che con dei disegni neoclassici - con uno dei suoi più compatti cartoni che – come ho avuto più volte modo di sostenere - rappresentano l’apice dell’arte italiana degli anni trenta. Alberto Martini appare (letteralmente, il quadro sembra un’apparizione onirica) con un dipinto che per data e soggetto convive alla pari con i più grandi quadri del primo surrealismo francese. Ma emergono dal segreto delle stanze private ancora altri quadri: i fiori tenui e iridati, poetici di De Pisis; le rose di Pirandello (gigante ancora non sufficientemente riconosciuto nella sua dimensione europea), di cui percepiamo le spine ancor prima dei petali, sismografo di una sensibilità che registra già nel 1938 i disastri della guerra che verrà.
Seguono poi gli anni del dopoguerra, con Savinio, Dova, Guttuso, Cassinari, Vedova, Pomodoro, Bonalumi, fino a Vangi. Anche qui, opere inconsuete, o comunque di intensità eccezionale, come il piccolo Vedova, capolavoro di tessiture che narra il passaggio del tempo, in un profluvio tempestoso di segni e colori che mescola i cieli di Guardi alle ombre di Tintoretto. O il Bonalumi che preannuncia, nelle sue estroflessioni “pop”, l’approdo imminente di Pascali alla sua versione di Arte Povera.
Insomma, una raccolta di opere che grazie alla loro qualità ci lasciano meditare sulla profondità dell’arte italiana di un intero secolo, riservandoci piaceri altrettanto segreti delle stanze che le avevano finora racchiuse.
Fabio Benzi